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  • Immagine del redattoreMirko Rizzi

Luca Spadaro

Approfittando della pubblicazione del libro "L'attore specchio" intervisto il collega Luca Spadaro che fa parte come me della Scuola di Teatro Binario 7 di Monza.

Attore, drammaturgo e regista, ha fondato nel 1992 la compagnia Teatro d’Emergenza per cui ha scritto e diretto numerosi spettacoli. Dopo aver collaborato con la televisione svizzera, dal 2003 si occupa di pedagogia teatrale, tenendo corsi di recitazione in Italia e in Svizzera.


Io ti ho conosciuto tramite Binario 7 e tutti mi parlavano bene di te. Ho quest’idea di te, ovvero tu fai laboratori ma sei un regista, giusto?


Io non so se sono un regista che fa il pedagogo o un pedagogo che fa il regista.

Infatti alcuni attori adorano venire diretti da me perché dicono che io sono uno che lavora con gli attori, altri si trovano scomodi e mi dicono che li tratto come allievi. Nel senso, io come regista non ti dirò mai “Fammela così”, preferisco cercare un gioco che possa portare a quello che voglio io, tale per cui tu diventi il capo, capisci come fare e sei tu che porti a me il risultato.

Questo metodo è nato da una volta che stavo preparando uno spettacolo e ho notato come io riuscivo a guidare il lavoro con gli attori fino al giorno del debutto, ma al momento di andare in scena si creava tipo un taglio del cordone ombelicale, che non mi permetteva di avere più un dialogo con loro.

C’era un problema. Così ho provato a ricostruire tutto il percorso di lavoro, facendo sì che quando un attore è sul palco e io in platea c’è comunque un dialogo. A fine spettacolo non deve chiedermi com’è andata, ma è lui a dirmelo. Questo può accadere solo se hai fatto tuoi gli strumenti di lavoro.


Che studi hai fatto?


Credo che noi che non abbiamo fatto l’accademia abbiamo dovuto gestire l’ansia da prestazione per dimostrare il primato studiando, ma lavorando come dei pazzi.

Io non ho fatto un’accademia, ho cominciato al liceo un po’ per caso. Ero appassionato di letteratura, non di teatro.

C’era questo corso di teatro e mi sono detto “Vabbè può essere una buona maniera per affrontare in maniera diversa la letteratura” e da lì ho cominciato. Ho fatto uno spettacolo con un pittore e intanto facevo i corsi al liceo, poi ho iniziato a lavorare/studiare con Coco Leonardi a Milano e con Cristina Castrillo a Lugano e nel frattempo facevo quasi tutti i mestieri che trovavo relativi al teatro. Tecnico luci, aiuto tecnico audio, attrezzista… Ero un ragazzino e mi hanno aiutato molto le compagnie del posto, ad esempio c’è il Teatro Pan, un teatro ragazzi, che ci lasciava gratis due volte a settimana la sala prove. Uno dei componenti del Teatro Pan di allora ci faceva dei corsi di danza gratis, in pausa dai nostri lavori incontravo Daniele Finzi Pasca, che ancora non era famoso, si chiacchierava. In effetti proprio lì, iniziavo a fare i primi esperimenti di teatro. Ecco, era un po’ diverso da adesso, che vuoi subito venderti come professionista, fatto e finito. Per me era ovvio che noi eravamo degli apprendisti; studiavamo e facevamo progetti. Come regista e come drammaturgo sapevo di non essere ancora un professionista. Tra l’altro, era bello perché eravamo nel sotterraneo del Palazzo dei Congressi di Lugano e ogni tanto sopra di noi, intendo proprio letteralmente/fisicamente, c’erano quelli veri, attori, registi, e noi interrompevano le prove e sgattaiolavamo su per le scale per vederli che stavano facendo un montaggio o una prova tecnica prima dello spettacolo. Però era molto chiara la differenza fra noi e loro. Successivamente sono andato anche un anno a lavorare in Argentina, perché avevo conosciuto degli attori argentini e perché quasi tutti i miei maestri erano di lì, quindi mi sono detto: “Andiamoci”. Ho scritto il mio primo testo in Argentina, in spagnolo. Probabilmente non lo avrei mai scritto in italiano, perché sentivo il peso dei modelli della nostra letteratura, invece in una lingua straniera era tutto più leggero. E ho fatto uno spettacolo lì, come regista-attore-drammaturgo con due attori del posto e poi l’abbiamo riportato in Svizzera. Dopo ho iniziato a lavorare, cioè hanno iniziato sorprendentemente a pagarmi! Mi ricordo la prima volta che ci hanno dato dei soldi ed è stato strano dire ai miei attori “Ragazzi ci sono dei soldi dobbiamo dividerceli”, era incredibile. La passione per la pedagogia l’ho sempre avuta avendo iniziato in quel modo, al liceo. Nel mio modo di lavorare la differenza tra regia e pedagogia non è mai stata così netta. Nel frattempo leggevo tantissimo di teatro e studiavo recitazione a Milano, poi ho dato dei corsi al centro sociale di Lugano, successivamente mi hanno chiamato a Milano alla scuola di “Teatri Possibili”. Però, diversamente da altri che fanno questo mestiere, non ho mai fatto regia e, poi, esclusivamente per arrotondare, pedagogia. Le cose per me hanno sempre viaggiato insieme. Dai 28 anni io ho lavorato anche in televisione, dunque avevo uno stipendio fisso, non avevo bisogno di insegnare per campare, ma avevo bisogno della pedagogia per costruire un sistema di lavoro come regista. Uno dei momenti più importanti era il laboratorio estivo, nel quale io e i miei attori provavamo a sperimentare cose che stavamo facendo noi su qualcuno esterno per vedere dinamica e meccanismi. E dunque sì, formazione senza nessuna accademia. Io, in realtà sono stato anche uno sciocco, siccome mi sono appassionato alla regia, mi hanno offerto un’occasione per approfondire, facendo da assistente a un regista famoso, ma io ho risposto “Eh, ho già da fare due spettacoli l’anno prossimo”. Che ripensandoci mi do dello scemo da solo, mi autoproclamo campione delle scelte sbagliate. Non sono tra quelli che sperano di creare uno spettacolo con molte repliche per riuscire finalmente a mollare i laboratori. L’unica cosa che rimpiango è che avrei dovuto fare di più da giovane perché di spettacoli miei alla fine non ce ne sono molti, ero troppo preso dall’ansia di dover far bene. Io inizio ora ad avere leggerezza sui lavori, anche se ho alle spalle una trentina di regie. Prima se 10 minuti di una replica venivano male, non ci dormivo la notte. Adesso sto facendo mia amica la leggerezza, pretendo comunque moltissimo, ma ho capito che è una questione di atteggiamento, di maturità. Nella mia esperienza ho visto molti lavori venire male per troppo amore. Io per primo, quando mi immergo in un mio lavoro non riesco a essere lucido come quando faccio un laboratorio, per quello preferisco avere un regista.

Secondo me poi il laboratorio stesso è una propedeutica inconsapevole alla regia. Ti capisco. Io ho appena fatto con un laboratorio “La vita è sogno”, che se fosse stato il mio spettacolo avrei perso il sonno per dei mesi. Invece, con la comodità che non devo avere tutto chiaro subito, abbiamo tradotto un testo barocco del 1600, trovando immagini funzionali, nuove e risolvendo innumerevoli problemi con tutta calma. Senza stare a spaccare il capello in quattro, perché l’obiettivo è un altro, è quello pedagogico, cioè che loro facciano dei passi avanti su certi elementi tecnici. Quello che manca più spesso in una scuola è: okay facciamo una scuola ma è necessario anche crearsi un’immagine: cos’è questa scuola, su cosa ritieni di voler ottenere. Ci sono bisogni completamente diversi, basta confrontare il programma delle accademie degli anni ‘50 e di quelle odierne, è inevitabilmente diverso. È importante come decidiamo di valutare il nostro lavoro, cosa vogliamo ottenere dai nostri allievi. Per esempio, io lavoro tantissimo sul fatto che tu riesca a farti degli strumenti e a portarteli via, alcuni lo amano, altri lo odiano. Il mio obiettivo è differente da voglio farti fare bene qui oggi, miro piuttosto al voler farti diventare autonomo. Io ti do un cacciavite e passiamo un anno a capire tutte le cose che ci puoi fare, poi se il cacciavite ti è piaciuto devi rubartelo. E tu nella tua cassetta degli “attrezzi” hai uno strumento in più. Una delle cose migliori, per questo, è quando incontro un mio ex allievo che mi dice “Ciao Spadaro sto facendo questo corso e sto usando questa tecnica in questa maniera, secondo te va bene utilizzarla qua e così?” Io dico sempre “Voi non siete i miei burattini”. Per me è essenziale trovare il proprio modo di fare le cose. La bravura coincide con l’autonomia. I miei allievi impazziscono perché non do certezze e dico che quando avranno certezze saranno professionisti. Infatti ai professionisti do un sacco di indicazioni, poiché so che all’interno di queste riescono ancora a trovare del margine per lavorare. All’allievo invece dico: fammi una proposta. Un saggio figo è semplice da fare, qualche luce, indicazioni del tipo “fai come me”, tanta musica ed è fatto. Ma è completamente inutile. Una mia frase feticcio è: “Io vi sto aspettando”, significa che non sono io a dover venire lì, ma loro a doversi muovere. Hai un testo, capisci quali sono le azioni, inizia a lavorarci. Io ti vengo incontro sì, ma solo se hai già iniziato a capire quali attrezzi puoi usare, quanto e come. Certo, è rischioso perché ogni tanto sembra che gli input non arrivino mai, soprattutto se si è già a maggio… però in 15 anni che lavoro alla fine con i loro tempi, ci arrivano sempre. Il gioco è “alza il culo e vieni”, un po’ come si fa con i bambini piccoli, se li accompagnerai sempre non arriveranno mai. Io seguendo la medesima linea di pensiero non parto con un testo, il testo si fa creando. Il top è quando si fa una storia inventata da zero. Non si deve attaccarsi alle parola quando si ha paura, cosa che risulta molto facile quando si hanno delle battute da mandare a memoria. Specialmente con i ragazzi, poi, è più stimolante senza copione. Io lavoro così con i bambini, con loro sono un neofita, vado a tentoni. Non uso il copione, ma poi nell’andare in scena usano le parole che abbiamo scelto. Solitamente , il loro saggio è diviso in due parti, la prima sono esercizi in stile lezione aperta e l’altra la messinscena di una storia. Gli esercizi fanno sempre un effetto pazzesco, perché è come se a loro fosse più chiaro l’obiettivo con il gioco. Come avviene nel gioco del “giapponese”, uno parte con una lingua inventata e l’altro che traduce all’improvviso e a 6/7 anni fanno delle cose pazzesche, da lasciare i genitori a bocca aperta. Io cerco di abituare dall’infanzia un tipo di attenzione che nella vita quotidiano non hanno mai.

Ritengo che la concentrazione sia fondamentale. Donnelan ne “L’attore e il bersaglio” sosteneva che come attore puoi scegliere se avere attenzione o concentrazione. La concentrazione dello studio o l’attenzione dell’apertura. Solo una delle due. Che è come dire puoi ricordarti ogni parola che dovresti dire o essere attento a tutto quello che succede. Una delle due inevitabilmente si perde, la storia o il testo, soprattutto agli inizi. Devi scegliere cosa è importante. Il vizio di ripetere e basta come rischia di esserci nei bambini, c’è anche negli adulti, non importa quanto sgamati. Nel teatro ragazzi è fondamentale che gli allievi siano presi. Sia quando insegni che quando fai gli spettacoli, devi saperli prendere e in media hai 3 minuti per catturare la loro attenzione. Peter Brook provava i suoi spettacoli nelle scuole, con quello che gli capitava, se non funzionavano lì, bisognava iniziare a farsi due domande. Bisogna trovare il punto zero teatrale per vedere se e come viene capito quello che si fa, andando a provarlo tra gli abitanti della giungla o del polo, davanti a una cultura completamente opposta, per scavare fino in fondo. Lui è un gigante, non a tutti capita a 21 anni di essere al Royal Shakespeare Theatre. Non sono gli esercizi che fanno il laboratorio, ma le persone. Specialmente i conduttori. Tu dicevi che quando fai un laboratorio hai degli obiettivi pedagogici, variano in base al gruppo o sono predeterminati nel momento in cui parti a fare un laboratorio (sono adulti o meno, li conosci o meno, ecc…)? Io comincio l’anno facendo il programma annuale, trimestrale, mensile, poi man mano cerco di adattarlo agli allievi in base alla formazione del gruppo, dipende anche dal tipo di attenzione che ricevo. Quello annuale è molto vasto, poi smezzo in prima e dopo natale e infine il mensile. La lezione la preparo basandomi su quest’ultimo e confrontandomi con le lezioni precedenti. Ho provato a fare un laboratorio senza programma e sì, si riesce, è andato abbastanza bene, ma per me è molto più noioso. Non ho chiari gli obiettivi, perdo la forza di quello che sto facendo. Se hai una mappa da seguire è più semplice anche cambiarlo e adattarlo alle varie esigenze/deviazioni. Dammi gli elementi cardine/obiettivi da raggiungere all’interno di un laboratorio teatrale. Fornire strumenti che riescono ad usare in autonomia. In quanto attore devi essere in grado di agire non quando sei pronto, ma quando è il momento giusto.

È un lavoro di azione e reazione obbligato a quello che hai intorno. Tutto quello che accade a teatro è un avvenimento fisico e stato emotivo e fisico sono la stessa cosa.

E poi, il magico mondo della voce, la voce è un’azione. Invece, spostandoci sulla parte commerciale, parlami della pubblicazione che esce a settembre. È nata in modo abbastanza casuale. Tutti gli anni riguardo i miei esercizi, li sistemo un attimo.

Ho un file con esercizi, idee legate ad essi, pensieri su cosa significa fare teatro… una specie di Zibaldone. Ho pensato che forse era meglio attribuirgli una forma più discorsiva, abituato come sono a scrivere per schemi rischio di perdere passaggi e non ragionare più. Mentre ci pensavo, mia moglie che conosce la mia passione per le neuroscienze mi ha dato un libro, “So quel che fai” di Rizzolatti. Io inizio a leggere e nella prima pagina c’è una citazione di Peter Brook. Andando avanti, a parte le pagine in cui parlano della conformazione del cervello che sono un po’ faticose, mi dà l’impressione di star parlando di teatro, azione, reazione, azione trattenuta, obiettivo.

Vedo tutti i miei esercizi spiegati con esperimenti scientifici. Completamente la stessa cosa. Da quel libro passo a un altro, “L’errore di Cartesio” di Antonio Damasio, che parla di emozioni e sentimenti dal punto di vista neurologico, il grosso concetto è quello che un’emozione senza un corpo non esiste e che quindi l’emozione è uno stato fisico. Avendo trovato in entrambi moltissime citazione del libro “L’espressione dell’emozione nell’uomo e negli animali” di Darwin, mi prendo anche quello e me lo leggo. Scopro che Darwin era un genio dell’osservazione. Non è che cambia quello che faccio, i miei esercizi, ma lo vedo da una nuova prospettiva, sotto una nuova luce. Sono sempre i miei esercizi, ma ora sono misurabili in scienza. Eugenio Barba dice che la scienza è una mitologia per chi fa teatro che dà nomi ai passi elusivi della nostra esperienza, o qualcosa del genere. Al che l’idea di sistemare il file per me, era ormai diventata un’altra cosa con queste scoperte, quello che sto facendo io diventa un po’ più concreto, anche perché le mie idee sono meno opinabili. Quando entri in scena accade qualcosa biologicamente a te e a chi ti guarda, e allora è interessante saperlo. Quindi ho visto nel particolare due o tre case editrici che si occupano di questo argomento. E ho visto che la Dino Audino diceva: “Se avete il progetto di un libro e lo scrivete in due pagine in due settimane vi diciamo se ci interessa”. Mi hanno risposto positivamente. Così ho iniziato. Quanto ci hai messo a farlo? La prima versione l’ho scritta da maggio a agosto dell’anno scorso. Poi l’ho riscritto molte volte e in un anno ha trovato la sua forma definitiva. Il titolo è “L’attore specchio”. Sono contento di questo titolo perché parlando con un’amica scrittrice mi ha confessato che nessuno dei suoi libri ha il titolo che avrebbe voluto, mentre dopo studi e ragionamenti sul mio siamo riusciti a raggiungere un compromesso che mi soddisfa. Una cosa che chiedo alla fine di ogni intervista, un esercizio che vuoi regalarci? Va bene, un esercizio che ultimamente uso spesso per il riscaldamento. Il riscaldamento deve rispondere a due domande: come sto? e che cosa mi serve? Domande che servono per la percezione di sé e per l’inizio del processo creativo L’esercizio si chiama “Bastone Multiplo Silenzioso”. Gli allievi si mettono in cerchio e si cominciano a lanciare un bastone dall’uno all’altro, facendo meno rumore possibile. Ondeggiando il braccio quando si riceve. Non si devono fare pause, ma non deve essere frenetico. Mentre si riceve si guardano gli altri e si tira alla prima persona che incroci con lo sguardo. È importante essere sempre fluido e non scegliere la persona a cui tirarlo, primo sguardo che si becca e tiro. Dopo che si è presa la mano entrano nel cerchio due, tre, quattro, cinque bastoni, dipende quanti stanno partecipando. Più bastoni entrano in gioco più uno deve rimanere attivo e la cosa diventa divertente. Succedono un sacco di cose fighe poi, magari bisogna prendere al volo due bastoni oppure si creano incroci volanti un po’ azzardati. Finché fai le cose al minimo sindacale è più facile commettere errori, ma con molti bastoni in gioco ti concentri di più e sei più attivo. Lavori con l’attenzione e ti riscaldi fisicamente. C’è anche una versione in cui si usano le persone al posto dei bastoni. Non le si lanciano, ovviamente ma nemmeno si spingono, si danno loro degli impulsi con la mano, indicando con un gesto semplice e deciso la direzione e la velocità del movimento lenta. Come nel gioco dei bastoni si cominci con una persona, poi con due, tre eccetera. Per il resto le regole sono le stesse.

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